Il ragno


 In un pomeriggio di pioggia e vento ho incontrato Aracne e la sua tela

Nessun ragno si affanna per creare
Il bello.
Il suo arco elastico
Conosce la matematica al buio;
Un Michelangelo dell’aria
Che intesse una teoria per decretare
I suoi ultimatum su un capello.
Nato dalla porpora del suo bisogno
Non ha problemi irrisolti.
Non
Soffre alcuna dicotomia,
Ma vive per lavorare e lavora per uccidere
Bellezza empirica la sua brama
Perfezione di malvagia abilità.
Lacero vertice melmoso
Di soffice caldo fango che si spaccò e mosse
Trattengo nel cranio la parola
Suggellata e racchiusa; eppure le mie mani
Creano con artificio e astuzia
Non l’abile tela, ma inutili fili.
Ma quando la misera fredda salma delle parole
sarà deposta sul catafalco tra le candele,
Io, vendicata, spargerò una lacrima
Che cadrà come cera, e striscerò inudita
Per tessere in silenzio, solenne e incurvata,
La pura necessità – un sudario
Ruth Miller
Il mito di Aracne è narrato da Apuleio nelle sue Metamorfosi. La storia della tessitrice che osò sfidare la dea Atena, pagandone le conseguenze..
Presso gli antichi Greci il ragno era consacrato alla dea Atena, ma raccontiamo il mito.
Un giorno, una giovane Lidia, Aracne, eccellente nell’arte del ricamo e della tessitura osò sfidare Atena. Per punirne la temerarietà, poichè le loro tessiture furono giudicate uguali, la dea ruppe il suo telaio e i fusi e in seguito al tentativo di Aracne di impiccarsi, la trasformò in ragno, condannandola a filare eternamente, ricavando dal suo stesso corpo il filo necessario per tessere le proprie tele (…da essa deriva la parola “aracnide” per definire la famiglia di appartenenza dei ragni.
In un mito Hopi sulla creazione, la nonna Ragno vive in una kiva sotterranea che rispecchia l’abitazione del ragno e richiama la comparsa degli Hopi dal “regno sotterraneo”. I Navajo, invece, descrivono la donna-ragno come colei che dimora dietro l’orecchio dell’eroe, sussurrandogli consigli e mediando il suo transito tra la dimensione fisica e quella sottile, all’interno della tela omnicomprensiva della vita.
Il ragno Anansi, nella tradizione africana occidentale, è un burlone senza scrupoli, che riesce a farsi beffe di animali più grandi come elefanti e leoni.
Gli artisti giapponesi del XIX secolo accentuavano questi tratti nei mostruosi tsuchigumo, i giganteschi ragni di terra dei miti antichi che evocavano la distruzione fatale della vita fragile e della coscienza primordiale, operata dalla natura.
Secondo Jung, il ragno con la sua tela equiparabile ad un mandala, rappresenta la completezza dell’essere nella compiutezza dell’universo, ed il filo argenteo e resistente che i ragni secernono è, in questa prospettiva, il più potente legame con il Se’ superiore, con la divinità e lo spirito. In molte civiltà il ragno è considerato animale psicopompo, accompagnatore di anime, o lui stesso simbolo dell‘anima libera dalla sua struttura fisica.
“Il ragno come tutti gli animali a sangue freddo o come tutti quelli che non hanno un sistema nervoso cerebro-spinale, ha la funzione nella simbologia onirica di rappresentare un mondo psichico che ci è estraneo al massimo...”
C.G. Jung, Opere vol.X- Bollati Boringhieri
Il ragno, con la sua ragnatela possiede lo spazio che occupa, soffoca e infine uccide chiunque si imbatta nella sua esile e mortale trama. In questo simbolo il tanto agognato rapporto con la madre che nutre e ci dà la vita si consuma nel mortale abbraccio con una madre terrificante, terribile divoratrice, che si ciba di sangue e di morte.
ll ragno in altre culture è assimilato alle Grandi Dee Tessitrici, che curano trama e ordito del mondo, come Rea per i greci, Tche-niu per i Cinesi, Maya per gli indù, e così via.
Prima della nascita degli dèi uranici, la Grande Madre veniva simbolicamente rappresentata da un vaso pieno: ventre e mammelle formavano un grappolo unico, la testa, priva del volto, poggiava sul centro del corpo, cosce gigantesche si reclinavano su gambe troppo sottili per poterle reggere, mentre i piedi, così esili da risultare sproporziona- ti, non potevano certamente sopportare il peso di questo enorme corpo a forma di vaso. Al pari dei piedi, anche le braccia, appena accennate, erano troppo rudimentali per poter garantire qualsiasi forma di movimento o di azione. La mancanza di agilità faceva quindi assumere alla Grande Madre una posizione seduta.
Non a caso il nome della più nota tra le dee madri dei culti primordiali è Iside, cioè il seggio. Il re che ne prenda possesso deve quindi sedersi nel suo grembo. Qui diventa ovvio il riferimento al simbolismo del vaso, che, come il grembo materno, accoglie il seme della vita.

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